L’Italia non è un player globale dell’uva da tavola. Nonostante le cifre produttive la collochino ai vertici dalla produzione mondiale (primo paese produttore in Europa e tra i primi 10 nel mondo), le cifre presentate da Fruitimprese alla recente fiera Luv di Bari certificano che l’Italia abbia una presenza sostanzialmente nulla sui mercati a lunga distanza.
Infatti, escludendo i mercati via mare raggiungibili in meno di una settimana (in primis l’Arabia Saudita), in nessun mercato oltremare l’Italia ha esportato più di 1.000 tonnellate di uva (pari a qualche decina di container) negli ultimi due anni (2022 e 2023).
Secondo Fruitimprese, i mercati oltremare rappresentano per l'uva da tavola italiana solo lo 0,85% delle esportazioni totali (media 2023-2022).
I motivi di questa grande assenza sono stati riassunti da Giacomo Suglia di Fruitimprese (vedi articolo). In sostanza, mancano in misura diversa tra i tanti operatori che compongono la filiera italiana dell’export di uva da tavola sia l’interesse strategico, sia la necessaria professionalità.
Questo non significa che - siccome non siamo interessati ai mercati mondiali - il nostro settore possa illudersi di vivere isolato dal contesto internazionale. Sono infatti numerosi i fattori che influenzano la filiera italiana dell’uva nelle sue varie parti: dal produttore all’esportatore, dalla Gdo al consumatore.
Un panorama complesso
La relazione (che potete consultare sfogliare e scaricare integralmente qui) presentata a Bari in occasione di Luv Fiera da Oscar Salgado, agronomo cileno ed esperto interazionale di uva da tavola, è indicativa della complessità del panorama nel quale si opera.
“La pressione competitiva aumenterà e prevarranno gli operatori che investiranno in tecnologia, che avranno qualità e condizione del prodotto uniti a un forte spirito critico e senza arroganza (che abbonda nei nostri campi). A meno che i governi non vogliano imporre anacronistiche barriere protezionistiche, questo porterà a grandi vantaggi per il consumatore”.
I fattori che determineranno una concorrenza più agguerrita sui mercati sono vari: innanzitutto il fatto che la produzione di uva da tavola è superiore nel nostro emisfero a quella dell'emisfero sud e, poi, la grande varietà di paesi che, come Cina e India, possono potenzialmente passare (anche in modo opportunistico) da maggiori produttori mondiali a grandi esportatori.
Ci sono già Paesi quali Cina e Australia che, per la loro particolare configurazione pedo-climatica, godono di una tale varietà di zone climatiche da gestire una stagione commerciale di 12 mesi, mentre altri tropicali (tra cui Perù, Brasile, Namibia settentrionale e Senegal) estenderanno la loro campagna fino a lambire le produzioni italiane precoci e tardive.
Già quest’anno l’Autumn Crisp prodotta in Egitto ha avuto un fortissimo impatto sui buyer europei, minacciando di scombinare le carte a Sicilia e Spagna che, allo stato attuale, in quel periodo hanno varietà il cui unico pregio è la precocità.
Anche le tecniche di conservazione in post-raccolta, in combinazione con le nuove varietà, stanno esprimendo risultati impensabili fino a qualche anno fa. Oscar Salgado ho mostrato uva bianca raccolta il 6 ottobre ancora in perfette condizioni il 24 gennaio seguente.
Stagionalità e nuove varietà
I maggiori cambiamenti che avranno un impatto sul settore globale dell’uva da tavola riguardano secondo Salgado “la possibilità di attivare di produzione subtropicali o tropicali dove, grazie al clima secco, è possibile gestire in modo attivo la stagionalità della raccolta, spostandola in modo strategico per coprire le richieste di mercato, le carenze produttive del calendario globale oppure per sostituire origini e produzioni con scarsa affidabilità”.
Vale a dire: la sola stagionalità non sarà più un fattore competitivo né per il precoce, né per il tardivo.
Salgado ha affermato che “le nuove varietà avranno un effetto accelerativo dell’impatto di queste aree di produzione. L’uso di diverse coperture (anticipo, ritardo, pioggia, colore) e dei regolatori della crescita di nuova generazione (che favoriscono lo sviluppo del colore) sono altri fattori che rafforzeranno la concorrenzialità delle nuove zone produttive tropicali e subtropicali”.
Insieme a un miglioramento della conservazione in post-raccolta, ci saranno cambiamenti anche sostanziali nei calendari commerciali. Abbiamo già visto sparire in pochi anni forniture come il prodotto precoce e tardivo degli Stati Uniti che presidiava i segmenti di mercato più ricchi in Europa, assieme al rafforzamento del Perù che, in Italia, è stato uno degli artefici dell’esplosione del mercato di importazione.
Secondo Salgado “il mercato abbandonerà progressivamente le vecchie varietà (tra cui Regal) creando forti riequilibri di mercato, mentre le varietà tradizionali più valide manterranno un ruolo sui mercati, garantendo anche una adeguata profittabilità ai produttori”.
In altre parole, quelle che adesso per certe varietà (con e senza semi) sembrano scelte dolorose e coraggiose, tra poco diventeranno solo dolorose.
Per quanto riguarda l’uva Italia, avrà un futuro solo se i produttori sapranno ripensarne in modo attivo e incisivo il posizionamento strategico, attualmente appiattito a ruolo di prodotto di massa per le masse.
Soluzioni per la produzione italiana
La ricetta per le produzioni italiane passa per alcuni punti evidenziati da Salgado: "Investire sui campi-prova per testare le nuove varietà nelle proprie condizioni (costi di produzione, condizioni pedoclimatiche, posizionamento di mercato), sviluppare varietà locali (nate e ottimizzate per le condizioni italiane) e valutare in modo freddo e strategico i propri mercati, individuando cosa abbandonare e cosa sviluppare".
I decenni di ritardo accumulati in Italia nella ricerca e nel breeding saranno difficili da colmare, nonostante i programmi italiani abbiano ricevuto negli ultimi cinque anni una maggiore, per quanto tardiva, attenzione dai privati.
Salgado ha osservato che dovremo “dimenticare le varietà libere, che si esauriranno. Quelle esistenti stanno invecchiando (vedi il caso della Crimson Seedless, ma anche di altre varietà gloriose come Sugraone, Autumn Royal e Flame) e non ci sono varietà libere all’orizzonte. Sul mercato si saranno solo varietà con licenza oppure varietà private, la cui produzione cioè è in mano ai costitutori stessi o a loro entità collegate”.
Altri limiti italiani
Poi Salgado ha aperto il capitolo della programmazione e del coordinamento, sui quali l’Italia ha finora mostrato un ritardo imbarazzante. In particolare: “Promozione al consumatore, associazioni nazionali coordinate per un’azione di lobbying globale (come già succede per mango e avocado), relazioni di lungo termine per sviluppare in modo coordinato la filiera, trasparenza per evitare sorprese nei calendari di fornitura”.
In Italia nessuno ha mai neanche accennato a un sistema di rilevazione statistica puntuale su base settimanale o giornaliera delle spedizioni al pari di altri paesi come Cile, Perù e Sudafrica. Basterebbe la volontà degli operatori e qualche settimana per impostare un sistema del genere.
Tecnicamente è una questione banale ma, evidentemente, agli operatori italiani non interessa condividere cifre per conoscere e anticipare le dinamiche di mercato.
Infine, Salgado ha messo in discussione uno dei capisaldi strategici della coltura italiana dell’uva da tavola: “Siamo sicuri che le coperture plastiche utilizzate in Spagna e Italia siano quelle giuste nella attuali condizioni che vedono continue e inaspettate ondate di calore?”.
Salgado ha concluso che per l’Italia sarà necessario “imparare a spedire l’uva lontano nel tempo e nello spazio, ad esempio facendo il massimo per conservare l’uva in modo da potere sfruttare pienamente il mercato di dicembre con rese elevate e costi competitivi”.
Secondo l’esperto infatti “la produzione italiana deve essere impostata in modo da poter essere conservata per un minimo di 35-45 giorni tra giugno e settembre e fino a 75-80 giorni per la parte terminale della stagione”.
Questo mette in discussione il sistema italiano basato sulla conservazione dell’uva in campagna che, oltre a non essere applicabile a molte varietà di nuova generazione, espone gli operatori a rischi elevati e crescenti, senza peraltro garantire ai clienti una sufficiente e necessaria sicurezza di programmazione.
In conclusione, se da un lato sembra scongiurato nel breve termine il collasso del sistema che presagiva solo pochi anni fa (e che sembra svanito solo grazie al dirompente impatto delle prime varietà di nuova generazione, come ad esempio Sweet Celebration e AutumnCrisp), dall’altro lato è necessario che i produttori italiani non si adagino sui risultati delle ultime due stagioni, ma continuino a pensare e ad agire in modo strategico per proteggere la sostenibilità di un prodotto che non mostra segni di cedimento nei suoi potenziali di crescita.
Senza una visione chiara dei trend globali, però, l’Italia con i suoi costi rischia di essere spiazzata da competitor che, a parità di prodotto e servizio, attaccano i mercati con l’ariete dei costi di produzione più bassi.
E su questo non potremo mai competere.