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29 gennaio 2025

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Bandire il greenwashing dalla Ue: è l’obiettivo della direttiva europea 2024/825/Ue, conosciuta come “Empowering Consumers for the Green Transition”, o meglio “Direttiva green claims”. 

Approvata a marzo 2024, entrerà in vigore a settembre 2026, dopo che sarà stata recepita dall’ordinamento italiano. La normativa impone numerosi divieti e limitazioni per le aziende, nel comunicare, su qualsiasi mezzo, dalle confezioni dei prodotti alle pubblicità, il proprio impegno per l’ambiente.

Negli ultimi anni, infatti, l’uso di termini come “sostenibile”, “biodegradabile”, “a impatto zero” era letteralmente esploso. Sembrava che non si potesse fare a meno di dichiarare il proprio impegno per l’ambiente per vendere un prodotto. Ma le dichiarazioni non sempre corrispondevano alla realtà o, se non altro, risultavano piuttosto vaghe.

Da due studi effettuati dalla Commissione europea, nel 2014 e nel 2020, su 150 green claims di imprese europee, il 53,3% risultava vago, fuorviante o infondato; il 40% non era comprovato da evidenze certe e il 50% presentava lacune sulla verificabilità. Sono questi i dati che hanno portato all’intervento della Commissione europea, con una direttiva pensata per garantire al consumatore finale una maggiore correttezza e completezza delle informazioni fornite dalle aziende riguardo il proprio impatto sull’ambiente.

Green claims: dalle parole alle immagini

Prima di tutto la direttiva specifica cosa intenda per green claims: “qualsiasi messaggio o rappresentazione non obbligatorio per il diritto dell’Unione eurooea o nazionale”.

“Claims” che possono assumere qualsiasi forma, precisa la normativa, anche immagini, simboli, marchi, nomi di società o di prodotti, che descrivano un “impatto positivo o nullo sull’ambiente oppure che sia meno dannoso per l’ambiente rispetto ad altri prodotti […] oppure abbia migliorato il proprio impatto nel corso del tempo”.

Cosa vieta la direttiva green claims

La direttiva europea stabilisce una serie di nuovi divieti per i green claims, ovunque essi si trovino. Ecco i principali. Sarà vietato: 

Esibire marchi di sostenibilità che non siano stabiliti da autorità pubbliche. Gli studi condotti dalla Commissione europea avevano individuato ben 232 marchi di qualità ecologica nell’UE, “con livelli di trasparenza molto differenti fra loro”. La nuova direttiva fa piazza pulita di questo eccesso di certificazioni ambientali, stabilisce che le aziende possano usare solo quelle basate su un sistema di certificazione istituito da pubbliche autorità e vieta i marchi di sostenibilità “autocertificati”, per i quali non viene effettuata alcuna verifica da parte di terzi né alcun monitoraggio regolare della conformità ai requisiti di base.

Usare termini generici che si riferiscono a un’eccellenza ambientale, che l’azienda non è in grado di dimostrare, La direttiva fa un lungo elenco di termini che fino ad oggi erano tranquillamente esposti su etichette e pubblicità, come “rispettoso dell’ambiente”, “ecocompatibile”, “verde”, “amico della natura”, “ecologico”, “biodegradabile”. Non potranno più essere usati nella comunicazione aziendale “a meno che non sia dimostrata l’eccellenza delle prestazioni ambientali del prodotto o servizio o dell’organizzazione oggetto del claim”.

Attribuire un’asserzione ambientale a un prodotto nel suo complesso o all’azienda in toto, quando riguarda soltanto un determinato aspetto del prodotto o uno specifico elemento dell’attività dell’azienda. Se cioè solo un componente può vantare benefici ambientali, non si può estenderli all’intero prodotto. Un’asserzione ambientale, cioè, deve essere precisa e non trarre in inganno il consumatore che deve comprendere chiaramente a che cosa si riferisce quell’affermazione, se all’intero prodotto o a una sua parte.

Affermare che un prodotto ha un impatto neutro, ridotto o positivo sull’ambiente in termini di emissioni di gas a effetto serra, sulla base della compensazione delle emissioni inquinanti. Quindi un’azienda può parlare di impatto sull’ambiente e di carbon footprint di un proprio prodotto solo basandosi su riduzioni e rimozioni di carbonio all’interno della propria catena del valore.

Quindi, precisa la direttiva, “sempre vietato formulare un claim sulla “carbon neutrality” di un prodotto basandosi (anche solo in parte) su compensazioni di CO2 attraverso crediti di carbonio”.

Spacciare come proprio elemento esclusivo un requisito imposto per legge

Se cioè il legislatore impone dei vincoli, l’azienda non può vantare di rispettarli come propria caratteristica distintiva. Per esempio è fuorviante affermare che un deodorante è “senza CFC” quando tutti i deodoranti devono essere privi di CFC. In questo caso, l’azienda deve precisare di non essere l’unica a presentare questa caratteristica, con una dichiarazione del tipo: “Come altri prodotti simili, anche questo non contiene CFC” oppure “è privo di CFC come richiesto dalla legge”.


Fonte: The Washing News

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