28 gennaio 2021

Peperoncino: import dalla Cina schiaccia il made in Italy

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Grande richiesta dei consumatori, ma scarsa produzione nazionale (30% del fabbisogno) che determina la sudditanza da mercati extra-Ue (duemila tonnellate annue da Cina, Egitto, Turchia) e schiaccia il made in Italy con un prodotto dai bassi standard qualitativi e a prezzi stracciati (1/5 in meno). E' questa, secondo Cia-agricoltori italiani, la fotografia del mercato del peperoncino, uno dei simboli gastronomici del nostro Paese, che per svilupparsi e competere ha bisogno di una filiera di qualità superiore, innovativa e integrata.

Il peperoncino in Italia

Il peperoncino in Italia ha goduto in passato di scarsa attenzione, identificato come sottospecie del peperone e considerato come spezia e non prodotto agricolo a tutti gli effetti. Questo l'ha spesso confinato alla passione degli hobbisti negli orti o nelle terrazze condominiali, per il solo consumo familiare. Il problema maggiore di questa coltivazione, solo in rari casi specializzata, è legato, infatti, a prezzi non concorrenziali rispetto a quelli dei Paesi da cui viene importato.

Dieci chili per farne uno (essiccato)

In Italia da 10 chili di peperoncino fresco si ottiene un chilo di prodotto essiccato, macinato in polvere pura al 100% e commerciabile a 15 euro. L'analogo prodotto dalla Cina ha un costo di soli tre euro, risultato di tecniche di raccolta e trasformazione molto grossolane, con le quali la piantina viene interamente triturata – compresi picciolo, foglie, radici – con pochissime garanzie di qualità e requisiti fitosanitari diversi da quelli conformi ai regolamenti europei.

La polvere stessa è per sua natura facilmente sofisticabile (si ricordi, in passato, il caso del colorante Sudan) e anche quando il peperoncino viene importato fresco o semi-lavorato da Turchia o Egitto, la sua qualità viene compromessa dall'utilizzo di molti conservanti.

La produzione e i costi di manodopera e trasformazione

L'elevato costo di produzione del peperoncino in Italia, sia fresco sia trasformato in polvere, è dato, soprattutto, dall'incidenza della manodopera e da procedure di trasformazione altamente professionali, compresi macchinari per l'ozono per una perfetta essiccazione. Secondo Cia, occorre, dunque, una maggiore valorizzazione e tutela del prodotto che, grazie al microclima e alle caratteristiche orografiche del terreno, trova nel nostro Paese l'ambiente ideale per la sua coltivazione. La creazione di denominazioni di origine territoriale darebbe al consumatore garanzia di qualità, tracciabilità e salubrità e un valore aggiunto adeguato alla parte produttiva, incentivata ad aumentarne la coltivazione estensiva, localizzata perlopiù in Calabria (100 ettari, con il 25% della produzione), Basilicata, Campania, Lazio e Abruzzo. Si verrebbe, così, incontro alla domanda sempre crescente dell'industria alimentare, che produce sughi e salami piccanti, senza dimenticare l'export, con la richiesta per salse e condimenti delle grandi aziende del food, fra le quali spiccano quelle dei Paesi Bassi, che rappresentano attualmente la destinazione del 50% della produzione di peperoncino della Calabria.

Il sistema produttivo italiano, oltre a certificazioni di qualità, avrebbe, bisogno anche di un ammodernamento delle tecniche di lavorazione per abbattere i costi produttivi, a partire dalla migliorazione varietale delle cultivar, per ottenere frutti concentrati sulla parte superiore ed esterna della pianta, più facilmente distaccabili nelle operazioni di raccolta con macchine agevolatrici.

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