“Noi abbiamo una visione che parte dalla terra ma che guarda oltre la terra, oltre ai frutteti. Conoscendo la terra, infatti, si possono individuare possibili soluzioni per limitare effetti negativi dei cambiamenti climatici, ridurre gli sprechi e rendere le coltivazioni sempre più sostenibili. Ecco perché l’innovazione è nel nostro Dna”.
Marco Rivoira sintetizza così la storia imprenditoriale della Rivoira Giovanni & Figli, iniziata più di 70 anni fa, e che nel 2025 porterà all’esplorazione di una nuova frontiera: rendere produttivi gli scarti della frutta.
“Siamo ancora alla fase di studio – racconta il Ceo del gruppo – ma ci sono grandissime potenzialità. Parte invece la sperimentazione in agricoltura del Pha. Lanciamo un progetto che punta a sostituire la plastica con un polimero che ha le stesse funzionalità ma che è integralmente, e facilmente biodegradabile in natura, senza bisogno di compostaggio industriale”. E così su 20 ettari di coltivazione di lamponi saranno utilizzate 1,2 milioni di ancorette prodotte in Pha.
Dal suo punto di vista “sarà una svolta” con la definizione in campo del concetto “plastica alto rischio dispersione”.
La prova del contadino
Facciamo un passo indietro. Correva l’anno 2018 quando il gruppo Rivoira investe per l’acquisto di una licenza per la commercializzazione in esclusiva mondiale del l’innovazione lanciata da Bio-On. Ma il progetto del Pha viene congelato per il fallimento della società bolognese sotto i colpi di una speculazione finanziaria.
Gli asset della start up vengono acquistati dalla torinese Maip che ne rilancia lo sviluppo industriale. La licenza è ancora valida e Rivoira insieme a Maip nel corso del 2024 sperimentano diversi tipi di prototipi in Pha: cover per telefonini, cavi per legatura, reti, vari tipi di clips per piccoli frutti, pomodori, vigneti, a volte usati in combinazione con polvere di mela essiccata. In un ettaro di piante di pomodori o di lamponi ci sono circa 60mila clips di plastica che possono essere sostituite con materiale non inquinante e biodegradabile dalla natura stessa.
Rivoira racconta: “Ho preso un campione di rete e l’ho seppellito. Ogni 15 giorni sono andato a vedere che cosa stava succedendo. Ho notato un degrado costante. Dopo un mese e mezzo il 90% del derivato di Pha era già scomparso per poi degradarsi del tutto”. E in un futuro prossimo l’utilizzo del Pha potrebbe essere allargato anche agli imballaggi: “Zeropack sta facendo i primi test per essere pronta nel corso del 2025”.
Le guerre e la concorrenza Usa
All’inizio della storia di questa azienda familiare, che a settembre ha visto l’ingresso nella catena di comando della quarta generazione, innovare significa, soprattutto, andare a caccia di nuovi mercati.
“Mio nonno, più di 70 anni fa, è stato il pioniere dell’esportazione di frutta. In quel periodo solo andando alla ricerca di nuovi mercati fuori dall’Italia potevamo crescere. Siamo arrivati a vendere le nostre mele anche in Nord Africa”, spiega mentre si gira a osservare la gigantesca cartina geografica che occupa una delle pareti più lunghe della sala riunioni.
Le 186 aziende agricole che riforniscono il gruppo possono tracciare il viaggio dei loro raccolti attraverso un’applicazione sul cellullare mentre l’algoritmo permette al manager non solo di conoscere i mercati che hanno raggiunto, o stanno per raggiungere, i prodotti del Gruppo ma anche il peso delle esportazioni rispetto alle vendite sul mercato interno e di conoscere l’incidenza del mercato europeo e di quello extra Ue.
Oggi l’export vale quasi il 60% del fatturato del gruppo che, anche nel 2025, dovrebbe continuare a crescere. Il crollo della produzione di mele nei paesi dell’Europa dell’est, e anche in Germania, offre grandi opportunità per le produzioni di qualità anche se sui mercati internazionali si addensano nubi sempre più nere.
In quella grande cartina geografica, infatti, si è già aperto un buco preoccupante: “La chiusura di fatto del canale di Suez comporta 20 giorni di viaggio in più per raggiungere l’India. Le nostre quote di mercato le stanno conquistando i nostri concorrenti americani. Un caso? Forse, ma come imprenditore sono deluso dall’Europa che è lontana dall’economia reale, e dai cittadini, e troppo concentrata a difendere banche e sistema finanziario”.
Più Europa meno burocrazia
Attenzione, però, Rivoira non vorrebbe meno Europa: “Io sono per gli Stati Uniti d’Europa perché solo con una politica estera comune, una comune politica fiscale e una difesa potremmo avere voce in capitolo nelle relazioni mondiali”. Prospettiva lontana, quasi un’utopia nell’epoca del sovranismo imperante ma, qualcosa, si potrebbe comunque cambiare nell’immediato ad esempio “modificando l’accordo di libero scambio del Mercosur”.
Oppure “correggendo una politica ambientale folle che non tiene conto come nei campi non si possa produrre senza una minima difesa chimica senza armonizzazione fra gli stati Ue”. Ma anche che “non serve avere regole comuni per regolare l’importazione di prodotti alimentari mentre Bruxelles lascia ai singoli stati la gestione delle trattative per definire i criteri per le proprie esportazioni”.
Tradotto vuol dire, ad esempio, che “la Francia è libera di esportare frutta in Cina e in altri paesi asiatici mentre per il made in Italy gli accordi commerciali e le barriere fitosanitarie rappresentano un ostacolo difficile da superare con effetti di limitazione del commercio più pesanti dei dazi”.
Non solo terra
Che fare, allora? “Guardare oltre, cioè superare il contesto italiano, studiare e sperimentare le buone pratiche di altri Paesi, liberarsi dai vincoli dell’industria sull’estetica della frutta, puntando su qualità organolettica premium, senza farsi condizionare da chi compra che ha la responsabilità della filiera e deve sostenere il produttore”.
Filosofia che è stata applicata, e continua a essere applicata, nel mondo della mela ("Ambrosia continua a darci grandi soddisfazioni”), nel kiwi (con il lancio di Kikokà a polpa gialla), ma anche nel cercare le soluzioni contro il cambiamento climatico: “Ci stiamo lavorando da una decina d’anni, da quando ci siamo accorti che le varietà più vocate facevano molta fatica a crescere sulle nostre terre”.
E così è nata una collaborazione con il centro sperimentale del Brasile Epagri che nel corso degli anni “ci ha permesso di portare sul mercato il marchio Samboa, mele più tolleranti alla ticchiolatura e resistenti alla glomerella e coltivate con una forte riduzione di trattamenti”.
Lottare contro i cambiamenti climatici significa anche investire nella tecnologia: “Da questo punto di vista possiamo dire di avere una Ferrari”. E spiega: “Uno stabilimento totalmente automatico che può confezionare oltre 80mila tonnellate di mele all’anno con due torri che gestiscono il prodotto semilavorato e quello confezionato”.
Una struttura di frigo-conservazione di ultima generazione per oltre 70mila tonnellate di frutta con una produzione elettrica solare che sfiora il 50% di autoconsumo e co-genera il calore recuperandolo dal processo di produzione elettrica.
Holding? No grazie
Il terzo pilastro della strategia di crescita del gruppo Rivoira, leader nel settore delle mele, dei kiwi e dei frutti con nocciolo, è la diversificazione. Il “guardare oltre la terra” nel corso deli anni è stato declinato nel campo delle acque minerali (“Siamo partiti dalla ristrutturazione dell’ex filatoio di Paesana e oggi Eva è la quinta referenza a livello nazionale”) e nella produzione dell’energia idroelettrica in Cile.
“Siamo impegnati in diversi campi e prima o poi dovremmo mettere ordine ma, a oggi, non abbiamo intenzione di strutturarci come una holding preferiamo avere un gruppo con società autonome indipendenti che spesso competono fra di loro, senza conflitti e travasi di fatturato fra le stesse”.