Sono la torzella riccia e il carciofo di Pietrelcina i due nuovi prodotti che entrano a fare parte della famiglia dei Presìdi Slow Food. I due ortaggi vengono dalla Campania e raccontano di terre che hanno saputo attraversare i secoli con tenace spirito di adattamento, diventando così luoghi ideali in cui tutelare la biodiversità della regione.
La torzella riccia
La torzella è uno dei più antichi cavoli al mondo: il suo viaggio comincia più di 4mila anni fa nell'area orientale del bacino del Mediterraneo e per questo motivo viene chiamata anche cavolo greco. Attraverso scambi commerciali, questa varietà di cavolo è approdata nell'area dell'Acerrano Nolano, in provincia di Napoli, che ben presto ne è diventata la zona di produzione principale. La sua lunga storia arriva fino al secondo dopoguerra, momento in cui la coltivazione scompare quasi definitivamente dagli orti campani, cedendo il passo a colture più redditizie.
Gianluca Napolitano, fiduciario della Condotta Slow Food Agro Nolano, sottolinea alcune delle sue peculiarità: “Si tratta di un alimento molto povero, fino alla Seconda guerra mondiale tra i cibi principali dei contadini delle nostre zone. Cresce spontaneamente, senza bisogno di molta acqua né di particolari attenzioni. Inoltre, ha un elevato contenuto di glucosinolati, che svolgono un'azione preventiva contro i tumori”. Da sempre, per i contadini della zona, la torzella riccia è tra i migliori alimenti da consumare per affrontare l'arrivo della stagione invernale, venendo raccolta a partire dal mese di novembre: si tratta, infatti, di un alimento molto nutriente, ricchissimo di vitamina C, acido folico, fibre e potassio.
Il suo seme è presente nella Banca regionale del Germoplasma campano ed è iscritto al repertorio campano delle varietà a rischio d'estinzione. “Essere riconosciuti Presidio Slow Food – continua Napolitano – è importante, perché significa valorizzare un territorio. Favorire la biodiversità locale e sostenere i produttori di piccola scala è il punto di partenza di un percorso che consentirà alle generazioni future di mantenere vivo questo simbolo del nostro territorio”.
Il carciofo di Pietrelcina
A Pietrelcina, comune del Beneventano noto in tutto il mondo per aver dato i natali a Padre Pio, tra distese di grano e tabacco ha trovato il suo habitat ideale una particolare varietà di carciofo introdotta intorno al 1840 da un prefetto originario di Bari. Che cosa la rende unica? “Una tenerezza fuori dal comune, il sapore particolarmente delicato e il colore donatole da una singolare tipologia di lavorazione” afferma Giancarlo De Luca, fiduciario della Condotta Slow food Benevento.
Di che si tratta? È presto spiegato: “Quando l'ortaggio comincia a germogliare, le foglie esterne vengono estirpate e depositate sulle infiorescenze ancora non mature. Questa pratica serve a limitare l'impatto dei raggi solari sul carciofo, in quanto andrebbero a compromettere la morbidezza e il colore caratteristici delle brattee, ovvero le foglie che proteggono il cuore del carciofo, che sono verdi con sfumature viola”. Tutte le attività in campo sono svolte a mano: dal diserbo estivo alla scarducciatura autunnale, finendo poi con la raccolta. Quest'ultima, a seconda dell'andamento climatico delle singole annate, inizia all'incirca dalla prima metà di aprile e termina a fine maggio. I capolini – le cosiddette “teste” del carciofo – sono raccolti singolarmente e legati fra loro in fasci da quattro o otto con giunchi che ancora oggi si raccolgono lungo le sponde del vicino fiume Tammaro.
La superficie coltivata a carciofi nella provincia di Benevento si è sempre aggirata intorno ai 30 ettari, la metà dei quali nel solo comune di Pietrelcina. Negli ultimi anni, tuttavia, questa varietà ha subito un drastico ridimensionamento, venendole preferito il più produttivo carciofo romanesco. Per questa ragione è stata inclusa nella Banca Regionale del Germoplasma campano tra le varietà tradizionali in via d'estinzione.
“Il Presidio del carciofo di Pietrelcina – conclude De Luca – nasce con l'obiettivo di recuperare questa coltivazione ormai in via di abbandono soprattutto per la carenza di manodopera locale, cercando anche di dare vita a un'operazione comunitaria condivisa che consenta ai giovani di portare avanti il lavoro dei loro padri. Mantenere vivo questo prodotto, che rende conosciuta e apprezzata la nostra terra oltre i confini regionali, ha un valore inestimabile”.