“La standardizzazione della cucina, l’impoverimento in quantità e qualità dei mercati rionali, lo svilimento del ruolo socio-economico dei contadini hanno ridotto ai minimi termini il feeling tra ristoranti e coltivatori, facendo scivolare la responsabilità nelle mani di grossisti e distributori. Risultato: verdure scialbe, sapori incerti, ricette forzate a colpi di glutammato e fondi di cottura”.
Non lesina critiche Licia Granello, giornalista gastronomica del quotidiano La Repubblica in un articolo dal titolo “Un orto da stelle” pubblicato domenica 18 e rilanciato poi il giorno seguente sul blog Pane Nostrum (vedi qui) che cura sempre per il quotidiano del gruppo l’Espresso. “Sotto accusa” la qualità media di frutta e verdura, che non riesce a soddisfare le esigenze di molti ristoratori, anche stellati, che hanno così deciso di dotarsi di un orto personale.
Se Enrico Crippa, chef con tre stelle Michelin ad Alba, ha la possibilità di scegliere quotidianamente frutta e verdura dall’orto che ha disposizione e condotto secondo i dettami dell’agricoltura biodinamica, l’articolo in questo caso prende invece come esempio una coppia di pionieri, che già negli anni ’70 si erano dotati di un orto biologico per avere a disposizione materie prime di qualità che donassero gusto alla loro cucina: sono Livia e Alfonso Iaccarino del ristorante “Don Alfonso“, due stelle Michelin a Sant'Agata sui Due Golfi in provincia di Napoli, “un'esemplare case history sul rapporto tra chef e mondo vegetale, diventato una specie di mantra gastronomico”.
Oggi, secondo Licia Granello, quest’intuizione degli Iaccarino ha fatto oramai proseliti. Da chef a coltivatori, dunque: d’altronde “i fornitori di primizie” sono molto cari. Sicché, “mentre la ristorazione nelle grandi città cedeva alla dittatura delle verdure seriali, la provincia ha tenuto botta, grazie ai terreni coltivati da genitori in pensione e giovanotti dalla sensibilità agreste”. E, così, lentamente i cuochi “hanno fatto del km zero la loro bandiera”.
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